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La fede è l'inizio, l'amore è il fine

19/06/2012

 

Fin dalla mia giovinezza ho letto e meditato con assiduità Ignazio di Antiochia, il grande padre della chiesa: dopo le sante Scritture, le sue lettere sono state il messaggio che ha maggiormente ispirato la mia vita di cristiano e di membro tra le membra della chiesa. Il vescovo e martire insiste nell’affermare che nella vita cristiana principio è la fede, fine o scopo è l’amore. Per questo chi professa di appartenere a Cristo sarà riconosciuto per quello che opera: quindi, scrive Ignazio, “è meglio tacere di essere cristiano ed esserlo che professarsi cristiano e non esserlo” (cf. Lettera agli Efesini XIV,1 – XV, 1). Questa esigenza che Ignazio ribadiva all’inizio del II secolo vale tuttora, anche se ultimamente noi l’abbiamo sottovalutata o dimenticata e qualcuno l’ha perfino contestata.
Essere cristiani, certo, è possedere la fede, ma in alcuni casi questa fede – che viene detta certezza e magari si esprime in una militanza eloquente e aggressiva – solleva dubbi più che attirare gli uomini e richiamarli alla conversione. Ora, solo persone che sanno mostrare una conversione avvenuta per loro stessi, che sanno testimoniare la “differenza cristiana” possono narrare con la vita ciò che predicano. Resta vero che l’uomo divenuto cristiano rimane peccatore – “il giusto pecca sette volte al giorno”, dice la Scrittura – e che la conversione, il ritorno a Dio va rinnovato ogni giorno, ma l’orientamento del vivere va mostrato. Il peccato del cristiano può essere una caduta, ma non un costume, un’abitudine, un modo di vita addirittura ostentato. Il Signore Gesù è andato verso i peccatori, si è seduto alla loro tavola, ha mangiato e bevuto con quanti pubblicamente avevano una vita peccaminosa – pubblicani, prostitute... – ma li ha richiamati a una vita diversa e costoro alla sua sequela non hanno continuato a vivere come prima.

La fede poi si esprime nel quotidiano attraverso l’amore che è il fine della vita cristiana: il cristianesimo non è gnosi, conoscenza e affermazione della divinità di Cristo o della sua resurrezione, ma deve essere – pur nelle contraddizioni dovute alla debolezza umana – una relazione con Gesù, il Signore che cambia la vita e ispira un’etica. No, non basta credere alla resurrezione e avere la gioia negli occhi, non basta professare che si è fatto l’incontro con Gesù: lo stile con cui il cristiano vive è determinante quanto la proclamazione di fede. E il messaggio del vangelo non può essere affermato se non si tenta di viverlo ogni giorno con fatica e perseveranza.

Quanto al vangelo, per noi cristiani non è una legge, ma la parola che ci racconta Gesù Cristo, il “narratore” di Dio (cf. Gv 1,18): non possiamo quindi mai disgiungere il vangelo da Gesù Cristo perché anche del Signore possiamo avere, custodire, amare un’idea, un’immagine forgiata da noi stessi o da un’ideologia che chiamiamo magari spiritualità. E per noi umani, più l’immagine di Dio o di Cristo è nostra, forgiata da noi, più la amiamo e la difendiamo fino all’aggressività, fino a imporla agli altri: infatti è un nostro idolo!

La mia ormai lunga vita mi ha fornito una buona esperienza in proposito: sono nato e cresciuto in una famiglia in cui si ripeteva che Gesù Cristo era “il primo socialista”, sono approdato all’università quando lo si considerava un “figlio dei fiori”, un hippy, ho terminato gli studi con Gesù “guerrigliero” a favore dei poveri, per poi incontrare ancora diverse immagini di lui che avevano tutte la stessa caratteristica: non erano aderenti al vangelo. Immagini forse più contemporanee, ma pur tuttavia idoli falsi. No! Gesù Cristo è il vangelo e il vangelo è Gesù Cristo: è il vangelo l’unica testimonianza autentica che la chiesa custodisce del suo Signore!
Per la sequela del Signore occorre dunque ricevere la fede conformemente al vangelo e non nutrire una fede in Cristo a nostra misura. Partendo da lì è poi necessaria la lotta spirituale, l’ascesi, il dominio di sé e, sempre e soprattutto, la prassi della carità verso gli altri: una carità sempre piena di misericordia e di giustizia, una carità che sa riconoscere l’altro nella sua alterità. Per essere davvero “cristocentrici”, cioè per porre Cristo al centro della vita personale, ecclesiale, sociale, occorre assolutamente diventare conformi a Cristo, “vivere come lui ha vissuto”(cf.1 Gv.2,6), altrimenti nominandolo soltanto, magari con forza, fino a gridarlo, finiamo per fare sì che il suo nome sia bestemmiato tra le genti ( cf. Ez 26,20-22; Rm 2,24).
Soprattutto chi svolge funzioni pastorali nella chiesa o pubbliche nella società vigili sul proprio comportamento e sullo stile di vita se non vuole essere di scandalo, di inciampo per i “piccoli” che nella loro semplicità credono ancora che un cristiano è tale se lo si vede tentare ogni giorno, di vivere come Gesù di Nazaret.

di Enzo Bianchi (tratto da JESUS di giugno 2012)

 

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